Pensate un villaggio. Piccolo, molto piccolo. Una dozzina di case in tutto. Più l’”albergo”. Questo e Narsarsuaq. E Basta. La Groenlandia è enorme ma non ci sono strade. Sei a Narsarsuaq? Lì ci resti, se non hai un aereo o una barca che ti porti altrove. Non crediate che perché siete sulla terra allora potete andare dove vogliate. La gente che vive lì fa benzina a chi passa. Immaginatevela come l’ultima stazione di benzina prima di un deserto.
Quando uno pensa a un luogo remoto non se ne rende neanche conto di che cosa sia la Groenlandia. Vi pare piccola? Ecco, l’aeroporto più vicino a Narsarsuaq è a Nuuk, a quasi cinquecento chilometri a Nord Est, sulla costa orientale. Quello dopo? A Maniitsoq, altri 150 km verso Nord. L’unico aeroporto internazionale, quello di Kangerlussuaq, sta a 700 km. Per andare sulla sponda occidentale, l’aeroporto di Kulusuk è ad altri 650 km a Nord Ovest. Nel mezzo non c’è assolutamente niente. Solo ghiaccio, vasto più di un milione e mezzo di chilometri quadrati, alto fino a tre chilometri. Il nulla più totale. Se non hai un velivolo o qualcuno che ti dia un passaggio, sei bloccato lì. Dovunque sia l’ammasso di case che ti ospiti.
Atterrato. Contento come mai di essere a terra. Mi hanno fatto parcheggiare l’aeroplano in discesa. Ho fatto un centottanta e sono ritornato indietro. Sono uscito dalla linea di rullaggio nel piazzale: mi hanno fatto fare un giro dell'oca. Parcheggiato in alto, col muso rivolto in basso. Ho messo i tacchi, davanti e dietro alle ruote per fissare il velivolo e sono andato in albergo. Che non aveva il wi-fi. Quindi sono stato in torre fino a tardi, utilizzando il loro wi-fi, perché dovevo prepararmi in tutta la pianifica del giorno dopo; sentirmi Andrè; fare tutto il coordinamento del carburante: sono stato lì delle ore a preparare tutto. I ragazzi della torre sono stati gentilissimi. L’aeroporto è un AFIS (Aerodrome Flight Information Service) come quello di Aosta.
Vado in albergo. E lì ho capito quanto l’ambiente influenza le persone. E me ne sono accorto a mie spese.
La popolazione locale della Groenlandia sono gli inuit. Credo che siano di discendenza eschimese. Adattati a una vita aspra e difficile, certo. Forti e coraggiosi, sicuro. Disponibili e flessibili, eh… Non ho mai incontrato gente più chiusa. E faccio il comandante di aerei: ho viaggiato un bel po’.
Vado alla reception.
“Salve, Milano.” Tutto in inglese, naturalmente. Avrei dovuto capirlo da come lo parlavano loro. Per avere la fattura è stata un’impresa non meno difficile che l’atterraggio. Gli ripeto il mio nome, le mie coordinate, gli chiedo di farmi la fattura. Ad ogni mia frase rispondevano “sì, sì.” Ma poi non facevano nulla. Gli avessi insultato la famiglia, avrebbero risposto allo stesso modo. Mi dà la chiave dell’albergo e gli dico:
“devo pagare”
“ah, sì, si.”
Gli do la carta di credito, lui... "spendi soldi, la carta di credito".
“Domani devo andare su aeroporto. Alle sette del mattino, ho bisogno della macchina.”
“Ah sì, sì sì, sì, sì, prenoto.”
Me ne vado verso la camera. Stanza 118. L’albergo è piccolo: tutte le camere sono allo stesso piano, in un unico lunghissimo corridoio. Ho addosso la tuta arancione, quella impermeabile per gli ammaraggi. Con due ore di sudore dentro. Ho lo zaino e sono stanco finito perché avevo anche passato le ultime ore in aeroporto a preparare la partenza per l’indomani. 111, 112, 113… 114… a un certo punto mi fermo e dico: “qui mi stanno facendo uno scherzo.” Torno indietro: magari ho sbagliato a contare. Niente, i numeri erano totalmente messi alla rinfusa. La 118 l’ho trovata, ma devono aver sbagliato la conta.
L’albergo è un due stelle. Avete presente i due stelle degli anni ’70? Apro l'armadio per vedere se c'era un appendiabito che potevo mettersi la tuta ad asciugare. Era colata dell'acqua della tubatura del soffitto sull’armadio e ha iniziato a colare l'acqua per terra. Chiudo l'armadio, stendo la tuta sull’altro letto per farla asciugare. Sembrava che dovessi dormire con un collega al fianco. Mi sono detto: “Max ascolta l'orologio: tra dieci ore devi essere in aeroporto.” Avevo giusto il tempo per mangiare qualcosa e dormire.
Si va a mangiare. Leggo il menù. Tutto umingmaq. Mai sentito. Cos’è? Lo chiedo al cameriere. Mi guarda, ci pensa. Poi mi porta in cucina. E chiede alla cuoca:
“come si dice umingmaq?”
“Umingmaq.”
“ok, prendo una bistecca di umingmaq.”
Inutile combattere.
Solo tornato a casa ho scoperto che umingmaq è il bue muschiato.
In sala pranzo c’erano due danesi che mangiavano. Mi portano la mia coca e aspetto. Non c’è internet, quindi anche due minuti sembrano lunghissimi. Però, internet o meno, dopo un’ora, la mia bistecca di umingmaq non è ancora arrivata. Io non sono un uomo paziente: non è che in un’ora e passa io non abbia chiesto notizie della mia bistecca. Dopo un’ora e mezza, una donna è venuta a chiamare i due danesi, per andare a far festa. Io da solo. ad aspettare la mia bistecca. Con gli occhi che mi si chiudevano dalla stanchezza. Io e questo cameriere, che andava avanti indietro a sparecchiare. A un certo punto l’ho fermato e gli ho chiesto:
“garçon, il la mia bistecca?”
“ah, deve ordinare?”
Avevo ordinato le patate arrosto assieme alla bistecca e mi sono arrivate fritte.
Sono finalmente in camera. Diventa buio, tendenzialmente presto, per la latitudine. Spengo le luci e vedo qualcosa di luminoso che viene dal soffitto. Penso di sbagliarmi. Però, più si abituano gli occhi al buio, più mi sembra di vedere una costellazione sul soffitto. Non ho capito, e di certo non voglio sapere con cosa hanno verniciato quella stanza. E dormiamo. Io e il mio compagno di stanza, steso ad asciugare. Riscaldamento spento, ho dormito sotto due piumoni: si vede che loro il freddo lo sentono diversamente.
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